La buia deriva del politically correct

Fine anni Ottanta, University of Michigan, USA. È qui che per convenzione nasce il cosiddetto “politically correct”, oggi al centro di innumerevoli dibattiti. Il termine deriva in realtà dall’espressione anglosassone “political correctness”, ossia la correttezza politica, subendo così un processo di derivazione per cui da sostantivo diviene aggettivo. Ma questa è solo una piccola modifica dei molti e vari cambiamenti a cui andrà incontro. Potremmo definire il politically correct come un’abitudine comunicativa che nasce per l’appunto a fine anni Ottanta negli ambienti universitari americani di stampo liberale, in particolare nella University of Michigan, dove ci si propone di rendere il linguaggio rispettoso e inclusivo verso minoranze, gruppi o individui generalmente oggetto di discriminazioni e offese, eliminando di contro consuetudini linguistiche ritenute discriminatorie e portatrici di pregiudizio. Dunque, in origine il politically correct nasce con uno scopo preciso, di tipo comunicativo e a mio avviso positivo e necessario per superare un linguaggio discriminatorio o capace di urtare la sensibilità di alcuni soggetti.

Tuttavia, le vicissitudini sociali e culturali che permearono e permeano tuttora il contesto in cui questo fenomeno si sviluppa finiscono inevitabilmente per modificarne il senso originario, tanto che, nato per eliminare ogni tipo di pregiudizio o discriminazione, il politically correct finisce per diventare esso stesso oggetto di pregiudizio, a seguito di una sua sbagliata ricezione e diffusione. Prende infatti progressivamente piede la convinzione che esso sia un impedimento a parlare e criticare chi fa parte di una qualsiasi minoranza, l’esatto contrario dello scopo per cui è nato. Di fatto però, il politically correct non limita la nostra espressione, anzi mette a nostra disposizione un maggior numero di potenziali scelte espressive di quante ne avremmo normalmente. Almeno nella sua accezione originaria, il politically correct e la sostituzione da esso promossa di espressioni discriminatorie permettono inoltre alcune particolari libertà espressive: poter parlare di problemi di gruppi a cui non si appartiene chiamandoli correttamente e non con espressioni che suggeriscono un senso di superiorità, poter nominare correttamente gruppi o individui con termini puramente descrittivi e non giudicanti, poter evitare di veicolare pregiudizi e luoghi comuni che hanno avuto origine da denominazione scorretta. Ne consegue che, nonostante le rimostranze ancora condivise da molti, il politically correct resta necessario e indispensabile: le minoranze vittime di discriminazioni e pregiudizi di per sé non avrebbero infatti un potere sufficiente a cambiare le abitudini linguistiche della maggioranza e hanno quindi ancora bisogno di essere tutelate, anche nell’ambito linguistico ed espressivo.

Ma allora dove sta il limite? Perché oggi parlare di politically correct fa sempre più spesso storcere il naso? Per comprendere meglio le manifestazioni odierne del politically correct possiamo prendere in prestito le parole del filosofo e teorico Mario Periniola, il quale definiva il politically correct come “un conflitto asimmetrico, un tipo di militanza che si basa sulla rivendicazione del rango di vittima”. La debolezza della vittima non è pensata come qualcosa che deve trasformarsi in forza perché ciò che fa la sua forza è proprio la sua ostentazione. Il politically correct vuole suscitare nell’avversario un senso di colpa che lo indebolisca e può dunque svilupparsi facilmente nelle civiltà di colpa (come gli Stati Uniti), più che in quelle di vergogna (quale ad esempio il Giappone). Le civiltà di colpa, infatti, presentano un sistema di controllo sociale e culturale che strumentalizza la morale e il senso di colpa per scoraggiare o punire comportamenti ritenuti scorretti e di contro premiare ed incentivare quelli considerati virtuosi, finendo per trasformare ogni cosa in etica.

Di conseguenza, altro limite corrente del politically correct è che sembra non credere nell’effettiva liberazione degli oppressi e nell’emancipazione delle minoranze, ritenuti pressoché impossibili nella loro concreta realizzazione. Il politically correct non è più una categoria etica, quanto piuttosto una “ipermorale” (secondo l’espressione del sociologo tedesco Arnold Gehlen), una patologia della politica incapace di muoversi sul terreno dell’effettualità e di ottenere risultati concreti, che cerca dunque di compensare questa sua mancanza facendo un uso esagerato ed esasperato del linguaggio dell’etica. Il politically correct oggi dilagante nelle società occidentali è diventato una vera e propria moda imperante, secondo alcuni addirittura una forma di dittatura della comunicazione, che pare sempre più assurda, ipocrita e controproducente.

Molto interessante a tal proposito l’intervento di Robert Hughes in un ciclo di conferenze tenutosi negli Stati Uniti a inizio anni Novanta. Nel suo intervento Hughes ha preso di mira il politically correct, che da principio di correzione della mentalità e del linguaggio ragionevole e utile è degenerato in una forma di “bigottismo progressista”. È una vera e propria “cultura del piagnisteo” (titolo del suo omonimo saggio che riassume il suo intervento), un vittimismo a tutti i costi in virtù del quale ogni parola o comportamento risulta sempre come un’offesa, una “Lourdes linguistica” che si rivela assolutamente insensata e incapace di smuovere la realtà di un millimetro, “che non restituisce al paralitico la possibilità di alzarsi dalla carrozzina da quando l’amministrazione Carter ha deciso di chiamarlo ufficialmente ipocinetico”. Per quanto almeno in parte ragionevole, questa dilagante tendenza a cambiare il nome alle cose, a tradurlo in un linguaggio politicamente corretto, non comporta comunque una riduzione del tasso di intolleranza presente in una data società; sempre citando Hughes, “l’idea che si cambi la situazione semplicemente trovandole un nome nuovo e più gradevole deriva dall’abitudine americana all’eufemismo”, un’ipocrisia imperante nella società americana (e in generale in tutto l’Occidente), che si è illusa di eliminare disparità e discriminazioni chiamandole con un altro nome, senza quasi mai modificare la realtà delle discriminazioni.

L’assurdità del fenomeno è inoltre riscontrabile anche nella sua pretesa di avere effetti retroattivi sui Grandi del passato come Dante, Shakespeare e Mozart, accusati per l’appunto di essere politicamente scorretti. Sembrerebbe superfluo dover giustificare la loro “scorrettezza” con l’evoluzione dei costumi e della mentalità, ma a quanto pare non lo è. Per citare altri esempi, di recente Youtube ha chiuso il canale di un grande giocatore di scacchi perché utilizzava i termini “bianco” e “nero”, mentre un supermercato svizzero ha ritirato dal mercato i cioccolatini Moretti a seguito di proteste anti-razziste su Twitter (il nome “Mohrenkopfe” significherebbe infatti “teste di moro”). E addirittura il politically correct si spingerebbe oltre la morte: il New England Journal of Medicine nel 1988 esortava a sostituire il termine “cadavere” con “persona non vivente”. E potrei continuare. Questa tendenza, tuttavia, si è recentemente rovesciata generando anche il suo contrario, il politically incorrect, diventato a sua volta una nuova forma di conformismo. Appellandosi a questa sorta di “teppismo intellettuale” chiunque oggi può ricorrervi facendo passare le sue parole o i suoi gesti per rivendicazioni di una cultura eversiva e minoritaria: il politically incorrect è ammesso e tollerato in quanto percepito come più autentico e meno ipocrita del suo corrispettivo “corretto”.

Altra deriva più attuale che mai del politically correct è poi la cosiddetta “cancel culture”. Si tratta di un fenomeno che consiste nell’attaccare e denigrare un’azienda o un personaggio pubblico con il pretesto di un suo comportamento o discorso ritenuto contrario al politically correct, e con l’obiettivo di danneggiarne la reputazione. L’individuo preso di mira diventa vittima di un processo di “cancellazione”, conseguenza di un giustizialismo imperante sul web (ma non solo), convinto dell’inefficacia del sistema giudiziario e dunque della necessità di un diverso intervento per ristabilire una presunta giustizia. Tuttavia, come già è accaduto col politically correct, anche la cancel culture sta andando incontro a una deriva esasperata: anch’essa ha infatti la pretesa di essere retroattiva (basti pensare, per citarne una, alla recente polemica intorno a Grease, musical datato 1978) e sta diventando quasi una sorta di meccanismo mainstream per sfogare frustrazioni che non potranno in ogni caso produrre cambiamenti concreti nel tessuto sociale.

Per di più, il processo di cancellazione viene spesso messo in atto (con successo, aggiungerei) anche in casi in cui non è ancora stata dimostrata la veridicità delle accuse: si pensi al caso di Woody Allen, accusato di aver molestato la figlia adottiva, a cui le case editrici hanno rifiutato la pubblicazione della sua autobiografia mentre Amazon ha cancellato la distribuzione del suo film più recente; o ancora, alla rimozione da parte di Netflix dei film di Johnny Depp, accusato invece di violenza domestica contro l’ex moglie in un processo che non si è ancora tenuto, e oltretutto escluso dalla produzione del terzo film di “Animali fantastici e dove trovarli”. Occorre quindi chiedersi: è giusto cancellare coloro che non sono ancora stati giudicati da un processo? E ancora, queste sono scelte genuine o ipocrite e dettate da intenti di marketing?

In questo modo, le battaglie condotte in nome del politically correct risultano sempre più estremiste, allontanando ogni possibilità di dialogo e miglioramento. Paiono inseguire l’ideale della polemica a tutti i costi, ancora una volta in nome di quella “cultura del piagnisteo” oggi ormai esasperata ed esasperante. Tante di queste recenti polemiche infatti hanno scatenato grandi reazioni nell’opinione pubblica, svanendo però presto e senza lasciare tracce significative. Di conseguenza, agli occhi dei più la cancel culture e in generale tutto il retroterra del politically correct paiono fenomeni di facciata, polemiche sterili con scarsa capacità migliorativa e che per di più scatenano ulteriori manifestazioni di odio nei confronti degli individui “cancellati”: si veda ad esempio il caso di internet shaming nei confronti di J. K. Rowling, l’autrice britannica di Harry Potter presa di mira per le sue posizioni transfobiche.

La questione è assolutamente complessa e difficile da sviscerare dal momento che il suo nodo centrale pare essere il confine labile e sfumato tra libertà di espressione e intolleranza, tra censura e tutela del prossimo. Fino a che punto possiamo ritenerci liberi di esprimerci? E fino a che punto è giusto cancellare contenuti ritenuti inaccettabili? Il politically correct e la cancel culture non rischiano di diventare una sorta di dittatura che elimina ogni opinione diversa?

Io credo che una risposta univoca e corretta non ci sia. Da un lato l’esasperazione e la saltuaria ipocrisia del politically correct non devono giustificare espressioni discriminatorie come forme di ribellione a questo tipo di sistema, dall’altro bisognerebbe evitare di perpetuare la degenerazione del politically correct in cieche polemiche dettate da frustrazioni o interessi di marketing. Chi si esprime pubblicamente deve certamente prendersi ogni responsabilità per le proprie parole e i propri gesti, al contempo deve essere tuttavia libero di esprimersi nel limite del rispetto verso l’altro; in ogni caso però, resta il fatto che oggi giorno certe prese di posizione non sono più accettabili, certi discorsi e atteggiamenti discriminatori o irrispettosi non possono più essere tollerati. Le sentenze emesse dalla cancel culture, finora per lo più arbitrarie, devono diventare più ponderate e consapevoli: la cancellazione di un contenuto (pensiamo all’esempio di Johnny Depp sopracitato) spesso danneggia un gran numero di individui che non hanno nulla a che fare con le colpe del diretto interessato, oltre che ignorare la (a mio parere dovuta) separazione tra arte e artista. Inoltre, dovremmo riflettere sulla ragionevolezza o meno del cancellare o censurare altri prodotti culturali ormai relativamente datati perché presentano elementi discriminatori, sintomi di costumi propri di un’epoca che non è più la nostra e dunque oggi superati: ha senso condannare opere come la Divina Commedia, pur nella consapevolezza che certe affermazioni “politically scorrect” di Dante sono dettate dalla mentalità del Duecento e non hanno alcun riscontro nella realtà socio-culturale del presente? Le criticità di fenomeni come politically correct e cancel culture restano quindi molte.

Tuttavia, la consapevolezza di come funzionano e delle conseguenze che essi comportano è sicuramente un piccolo passo verso una loro migliore comprensione e un ripensamento di dinamiche socio-culturali che il più delle volte finiamo per vivere in modo passivo e che soprattutto necessitano di essere riviste.