Rape Culture: se non ne sei consapevole, ne fai parte

Molti sono stati in questi giorni gli articoli, i post e le discussioni nate sulla rete circa alcuni recenti fatti di cronaca e più in generale circa la visione della donna nella società contemporanea. Una visione, a mio parere, ancora troppo sessista e per questo estremamente pericolosa. Lo si è visto con il caso di Genovese, noto e ricco imprenditore accusato di aver violentato una modella appena diciottenne a una festa. Lo si è visto con il caso più recente della maestra di Torino, minacciata e licenziata per la divulgazione di suoi materiali intimi. Lo è stato per moltissime altre donne, di cui non si è sentito parlare o di cui ci si è già dimenticati, e la cosa ancor più grave è che lo sarà per tante altre ancora.

Questi eventi non sono che la punta dell’iceberg, al fondo vi sta uno status quo ben più grave ed inquietante, una sovrastruttura che viene definita “Rape Culture”, cultura dello stupro, realtà ignorata dai più (se volontariamente o meno, questo resta da vedere). È una cultura che non abbiamo scelto, ci è stata tramandata da sempre e di fatto costituisce la normalità.

L’avanzare subdolo e silenzioso della Rape Culture si esprime in diverse forme: dal cat-calling, le avances non gradite che, da quanto dimostrano le statistiche, ben l’84% delle donne italiane ha subito anche solo camminando per strada; all’oggettivazione sessuale della donna, spesso ridotta a un corpo, un mero oggetto volto a soddisfare i desideri sessuali dell’uomo, fenomeno sicuramente promosso anche dai mass-media e dai suoi utenti; dalle molestie subite sui mezzi pubblici, sul posto di lavoro, e in chissà quante altre situazioni; allo stupro e addirittura al femminicidio. Certo, non sono sicuramente situazioni equiparabili tra loro, ma è chiaro che derivino tutte da un minimo comune multiplo, che è appunto il paradigma della cultura dello stupro.

La Rape Culture emerge con evidenza anche nel caso del “victim blaming”, la colpevolizzazione della vittima, come è avvenuto in particolare nei confronti della vittima di Genovese e se volete farvene un’idea basta scorrere i commenti a dir poco raccapriccianti sotto i post che riguardano la vicenda. Come accade in ogni caso di stupro, la vittima non viene mai creduta fino in fondo, si riesce sempre a trovare qualche scusante per l’abuser, tanto che Genovese viene definito dai quotidiani come un imprenditore di successo, un “vulcano di idee e progetti che, per il momento, è stato spento” (Sole 24 Ore), quasi a suggerire che lo stupro sia stato una piccola sbavatura su una condotta e una carriera impeccabili. E la vittima nel contempo viene colpevolizzata: “ingenua”, “sprovveduta”, “vuole spillare soldi all’imprenditore ricco di turno fingendo che l’abbia stuprata”, e potrei continuare all’infinito. Dunque, l’opinione pubblica, le istituzioni e la società nel suo complesso non fanno altro che proteggere gli abusers con il classico “boys will be boys” e incolpare le vittime, abbandonandole, screditandole e soprattutto disincentivandole a denunciare. E’ un circolo vizioso: i casi di abuso sono all’ordine del giorno perché nessuno crede davvero alle vittime, spesso anche in presenza di prove schiaccianti (come nel caso in questione), e perché in ogni caso per chi abusa non ci sono gravi conseguenze. Non è assolutamente una novità, ma il fatto stesso che non si sia coscienti di questa realtà o si cerchi in tutti i modi di nasconderla dietro patinate apparenze è sintomo stesso di appartenenza al sistema della Rape Culture. In sostanza, se non ne sei consapevole ne fai quasi sicuramente parte. E se ne sei cosciente ma non fai nulla per combatterlo, sei tra coloro che preferiscono l’omertà, secondo cui certe cose non bisogna dirle o forse, per meglio dire, non conviene dirle.

Altra espressione della Rape Culture è poi ben esemplificata dall’altro caso sopracitato, quello della maestra di Torino, vittima del cosiddetto “revenge porn”, la divulgazione non consensuale di materiale intimo della vittima a terze parti. È a tutti gli effetti un reato, oltre che una forma di abuso psicologico e sessuale, alla cui base vi è un desiderio di vendetta e di possesso nei confronti della vittima da parte di chi condivide i contenuti in questione. Ed è infatti quanto è accaduto alla maestra torinese, se non fosse che a questo fenomeno se ne ricollega uno altrettanto spiacevole (per dirla eufemisticamente): lo “slut-shaming”, che in qualche modo rientra sempre nella colpevolizzazione della vittima. Lo slut-shaming può essere definito come l’atteggiamento messo in atto dall’opinione pubblica che consiste nel prendere le distanze dalla vittima, stigmatizzarla e colpevolizzarla per aver dimostrato di avere comportamenti o desideri sessuali apparentemente non accettabili per un certo codice morale che la società stessa vorrebbe imporci. La maestra infatti è stata vittima di insulti, minacce e in ultimo di licenziamento per il semplice fatto di avere una vita sessuale. La Rape Culture consiste proprio in questo: nel giustificare l’autore del reato, definendo quest’ultimo una “goliardata” che la vittima (a quanto pare di nuovo una “sprovveduta” e per questo ancora una volta colpevolizzata) doveva aspettarsi. E non si tratta di un comportamento messo in atto solo dagli uomini, anzi, molto spesso sono le donne stesse a colpevolizzare le vittime, donne soggette a loro volta ad una sovrastruttura culturale che plasma il loro modo di pensare in direzione ancora troppo sessista.  Inoltre, teniamo bene a mente che il revenge porn non va solo a distruggere la reputazione di una donna (non perché sia giusto così, ma perché è questo ciò che fa l’opinione pubblica), ma può comportare anche una distruzione a livello psicologico e sociale delle vittime, che più spesso di quanto crediamo, denigrate e abbandonate a loro stesse, arrivano a togliersi la vita.

Per concludere, anche se la questione è talmente vasta e complessa da non poterla certo esaurire in queste righe, ci terrei a sottolineare che non ne sto scrivendo perché gli ultimi fatti di cronaca mi hanno illuminata circa la vera condizione della donna nella società odierna; scrivo quest’articolo perché credo che partendo da fatti concreti, recenti e già tanto commentati, le persone possano più facilmente aprire gli occhi e divenire consapevoli di quanta strada c’è ancora da fare per estirpare la violenza di genere e tutte le sue sovrastrutture culturali.

Il 25 novembre è la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, se ne parlerà sicuramente sui giornali, in televisione e sul web; spero possa essere un’occasione per tutti per informarsi e assumere uno sguardo critico: non accontentiamoci di reiterare le opinioni e i paradigmi sessisti con cui siamo stati cresciuti, ma rendiamoci sempre più consapevoli di una realtà che ha bisogno di cambiare. E facciamo in modo che questo accada.